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Cronache e Click: il mio flop, quando un libro non funziona

Il mio manuale sul giornalismo digitale non ha avuto il successo (in)sperato. Ecco cosa ho imparato dal flop di Cronache e Click.

Cronache e Click è uscito il 5 marzo scorso. Il mio manuale sul giornalismo digitale, nato per raccontare vent’anni di esperienza tra blog, redazioni online, social media e – oggi – intelligenza artificiale, non ha avuto il percorso che speravo.

Parliamoci chiaro: è stato un flop.

Non lo dico con amarezza fine a sé stessa, ma per semplice onestà intellettuale. Le vendite sono state irrisorie, i feedback quasi inesistenti, persino da parte di chi ha ricevuto una copia in regalo. Non è una colpa da attribuire ad altri: errori di comunicazione e promozione da parte mia ce ne sono stati, e sarebbe sciocco negarlo.

Certo, qualche riflessione più ampia la faccio. Forse il web è ancora un terreno dove molti giornalisti faticano ad accettare lezioni, soprattutto da chi – come me – è nato blogger e continua a credere che sia fondamentale conoscere gli strumenti digitali, senza vedere il demonio nei social network o nell’intelligenza artificiale.

A Palermo, la mia città, il silenzio è stato quasi totale: nessun feedback, nessun invito, nessuna richiesta di presentazione o acquisto. Neanche qualcuno che si è proposto per un’intervista. Uniche eccezioni, la presentazione a Cinisi – frutto dell’affetto dell’amministrazione comunale e con la presenza e il supporto di tre amici ed esperti (ma è andata male dal punto di vista delle presenze)  – e l’ospitata a RadioIn grazie all’amica Milvia Averna. Poi, il nulla. Sconfortante.

Eppure, non è un libro qualunque. Lì dentro ho riversato due decenni di lavoro, con consigli che avrei potuto gelosamente custodire. Un testo generoso, nato dal desiderio di condividere strumenti e visioni in un settore che, ogni giorno, cambia e mi incuriosisce.

La realtà, però, è che Cronache e Click non ha trovato il suo pubblico. Per questo ho deciso non solo di smettere di promuoverlo, ma anche di non scrivere altri libri sull’argomento. Sarebbe tempo sprecato. Meglio che tenga per me ciò che so.

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L’arroganza delle verità assolute: quando il confronto diventa una guerra di opinioni

Nel mondo digitale il confronto è diventato troppo spesso una guerra tra monologhi. L’opinione personale si maschera da verità universale, soffocando ogni possibilità di dialogo autentico. Qui rifletto sul valore del dubbio, sull’arroganza intellettuale di chi seleziona solo le fonti che rafforzano il proprio pensiero e su come difendere la propria dignità comunicativa in un web sempre più polarizzato.

C’è un vizio moderno, figlio dei social media e della velocità con cui si reagisce anziché riflettere. È la tendenza a spacciare l’opinione personale per verità assoluta. Un’abitudine ormai interiorizzata da molti, che non si limitano a esprimere un pensiero ma pretendono che quel pensiero venga accettato senza discussione, pena l’accusa di essere ignoranti, disinformati o peggio ancora: con intento disonesto.

Chi la pensa diversamente non è più un interlocutore, ma un nemico. E quel che dovrebbe essere dialogo diventa battaglia di posizioni dove la logica cede il passo al sospetto e la complessità viene messa all’angolo.

Dentro questo clima di tensione digitale, c’è un valore che si è fatto raro: il dubbio. Rivedere il proprio punto di vista, ascoltare l’altro per rafforzare o ridefinire la propria opinione è diventato un atto controcorrente. Eppure, è proprio attraverso il confronto – anche acceso, anche scomodo – che si cresce.

Chi ha paura di riconsiderare le proprie idee non ha davvero fede nella forza del proprio pensiero. E spesso sono i più insicuri a gridare più forte, a denigrare gli altri pur di non sentire che esistono altri punti di vista validi quanto il proprio.

L’arroganza delle fonti selezionate

C’è poi un altro elemento tossico: la selezione delle fonti a uso e consumo della propria tesi. Si leggono, si condividono e si citano solo quelle che rafforzano la convinzione personale, ignorando o screditando le altre senza neppure approfondirle. È un esercizio intellettualmente scorretto che traveste il pregiudizio da razionalità.

E così, il pensiero altrui non viene più criticato con argomenti, ma etichettato come fake news, ridicolizzato, screditato. Non c’è più uno scambio, ma un’esclusione.

Come difendersi? Con lucidità e selezione

Di fronte a questi comportamenti – sempre più frequenti, sempre più aggressivi – non c’è una ricetta miracolosa. Ma c’è una strategia di dignità: ignorare chi cerca solo lo scontro oppure, con pacatezza, ribadire la propria posizione senza cedere alla provocazione.

Bloccare, nascondere, silenziare non è censura: è autodifesa. Difesa del proprio tempo, del proprio benessere mentale, della qualità delle relazioni digitali che vogliamo coltivare. Perché non tutto merita risposta e non tutti meritano confronto.

Con l’epoca attuale che interpreta il dissenso come un attacco, chi rispetta l’altro e accetta la complessità è un atto rivoluzionario. Una rivoluzione gentile dove il dubbio non è debolezza ma segno di intelligenza. Difenderlo è un atto di rispetto verso se stessi e verso la società che, nonostante tutto, può ancora migliorare.

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Oltre il rumore: la dignità di chi non fa clamore. Su Marcella Cannariato e il Magico Natale

Non c’è bisogno che lo dica, ma lo scrivo: non entro nel merito della vicenda giudiziaria.
Sono garantista per scelta e per convinzione, e come ogni cittadino rispettoso della democrazia, attendo il lavoro della magistratura. Punto.

Eppure, c’è un pensiero che mi preme di condividere.
Chi mi conosce sa che ho curato la comunicazione digitale e l’ufficio stampa di Magico Natale 2024, l’evento della Fondazione Tommaso Dragotto dedicato ai bambini a rischio marginalità.

Un’esperienza che mi ha toccato profondamente. Ma soprattutto, conosco Marcella Cannariato da quindici anni. E posso dirlo senza esitazione: è una fortuna averla incontrata.

Non ho mai conosciuto una donna così combattiva nel difendere i diritti delle donne, così concreta nell’aiutare chi è più fragile. Marcella avrebbe potuto scegliere la via più semplice: occuparsi solo della sua azienda, un’impresa dove – non a caso – la componente femminile è maggioritaria. Un segno tangibile della sua coerenza nella battaglia contro il gender gap.

E invece no.
Ha scelto l’impegno. Quello vero, fatto di presenza, parole, ascolto. Ha scelto di esporsi, anche quando era più comodo restare in silenzio. Va nelle scuole, partecipa a convegni, alimenta dibattiti. Non per visibilità. Non per protagonismo. Perché crede davvero in ciò che fa.
Eppure non ama raccontarsi. Non ostenta nulla. La sua serenità se la tiene dentro, quasi per rispetto verso chi non ne ha. Ma se bussi alla sua porta, lei c’è. Sempre.

Marcella Cannariato non ha bisogno delle mie parole, lo so. Ma oggi sento il dovere di scriverle. Perché non posso stare zitto davanti a chi, senza conoscerla, la sta dipingendo come un’arrivista. Come un personaggio da sbattere in prima pagina, costruendo un mostro mediatico solo perché lei – con dignità – non ha mai fatto clamore attorno a sé.

Magico Natale 2024 è stato molto più di un evento. L’ho raccontato, ho contribuito alla sua diffusione sui media. Ho visto i bambini dello ZEN, del Borgo Vecchio, di Corso dei Mille. Ho visto i pazienti dell’Ospedale dei Bambini sorridere, seppur con il corpo segnato dal dolore. Ho visto doni semplici – un flauto, un astuccio di colori – diventare segni di speranza. E poi la musica. La magia pura. C’ero quel giorno, in ospedale, quando la Kids Orchestra del Teatro Massimo ha suonato davanti ai piccoli pazienti. C’erano padri con i figli malati in braccio che ballavano tra le corsie sulle note dei canti di Natale.

Scene che non si dimenticano.

È stato un tempo sospeso, pieno di grazia. Due settimane intense, tenere, umane. E forse è anche per questo che oggi mi pesa leggere certi post. Per giorni mi sono chiesto se valesse la pena scrivere queste righe. Se fosse o meno opportuno. E alla fine ho deciso di farlo. Perché non ci sto alla gogna.

Non ci sto al sarcasmo travestito da irriverenza, quando invece si scivola nel cattivo gusto. La cronaca giudiziaria è sacrosanta, certo. Ma raccontare le persone come se fossero il male assoluto, senza conoscerle davvero, senza ascoltare, è un’altra cosa. E io questo, no, non riesco ad accettarlo.

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Controvento digitale: scrivere per sé, condividere con tutti – riecco ‘C’è Walter’

Riecco C’è Walter.

Nonostante i social media. Nonostante si pensi che i blog facciano ormai parte del passato remoto di Internet.
Eppure, in questa nuova fase rivoluzionaria del web, dove l’intelligenza artificiale sta cambiando le regole del gioco, lo spazio personale è un luogo da preservare e valorizzare. Perché il racconto pubblico di sé, quello utile, ha ancora bisogno di confini liberi e autogestiti, sebbene nel sistema algoritmico della rete.

Un microcosmo comunicativo dove, a dettare legge, è il suo admin e, perché no, dove puntare a una community interessata, nel bene o nel male.
Lo scopo è sempre lo stesso: lasciare tracce e permettere a chiunque voglia (internauti occasionali compresi) di seguirle, correggerle, approfondirle, in nome del tag principe: condivisione.

Una sfida vintage in un’attualità fatta di piattaforme altrui dove — mai dimenticarlo — sono sempre i proprietari a determinare i requisiti della libertà di manifestazione del pensiero: è Meta a decidere preventivamente cosa pubblicare o meno su Facebook, Instagram, ecc.; è Google a scegliere quale contenuto mettere in cima ai risultati delle ricerche; è TikTok a determinare la popolarità dei video nel feed, e così via.

In un blog, invece, che vive di vita propria, resiste ancora la libertà pura. Certo, poi sta al blogger diffondere il verbo altrove, con tutte le strategie del caso. Però un conto è distribuire il messaggio, un altro è avere la consapevolezza che non rischia di essere limitato dagli algoritmi degli spazi ospitanti (WordPress, infatti, non è una rete sociale ma un sistema di gestione dei contenuti).

Quindi, rieccomi. Vediamo che succede.

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